Il conflitto tra Israele ed Hamas non si concluderà rapidamente, ma le operazioni militari lanciate da Israele in risposta al terribile attacco terroristico del 7 ottobre, prima o poi avranno termine. Cosa accadrà a quel punto? Quali conseguenze dovremo aspettarci?
Divisioni e danni collaterali
Le operazioni militari condotte da Israele a Gaza sono ormai offuscate dallo scatenarsi delle passioni politiche, da massicce operazioni propagandistiche e da fitte e complesse manovre diplomatiche. Di conseguenza è diventato molto difficile capire cosa realmente sta accadendo e ancora più difficile cercare di prevedere le conseguenze di questo conflitto sul Medio Oriente.
Possiamo cercare di individuare gli obiettivi dei contendenti e degli altri maggiori attori coinvolti nella crisi, per capire quali potrebbero realisticamente essere raggiunti dal conflitto e quali conseguenze queste aspettative, soddisfatte o meno, avranno in futuro.
Le operazioni condotte dalle Forze Armate israeliane a Gaza mirano a distruggere Hamas. Si tratta probabilmente di un obiettivo irrealistico. Potrebbe invece essere possibile indebolire molto significativamente questa organizzazione e forse anche mettere fine al suo governo impedendogli di utilizzare le sue basi nella Striscia per colpire Israele.
Si tratta comunque di obiettivi ambiziosi e molto difficili da raggiungere senza un’occupazione militare di lunga durata (che Israele sembra voler evitare) e soprattutto senza importanti danni collaterali: vittime civili e distruzioni massicce di proprietà non direttamente collegate ai terroristi. Per quanto non si possa parlare di distruzioni e uccisioni indiscriminate (quali furono ad esempio i bombardamenti a tappeto della II Guerra Mondiale) la prevedibile lunga durata nel tempo delle operazioni e la quantità delle vittime e delle distruzioni che esse provocano costituiscono un pesante fardello umanitario e politico che mobilita la protesta, in particolare nel mondo arabo e in quello islamico, e rischia di influenzare seriamente gli equilibri futuri in Medio Oriente e nel Nord Africa.
In tutto questo non è chiaro quali piani a più lungo termine abbia Israele nei confronti dei palestinesi e del loro territorio, né se vi sia nel paese un consenso politico sufficiente per accettare ed applicare un effettivo piano di pace (come ad esempio la soluzione dei due stati).
L’obiettivo dichiarato di Hamas è la eliminazione di Israele. Anch’esso sarà ben difficilmente realizzabile, per cui il suo obiettivo intermedio, a questo stadio, sembra essere quello di allargare al massimo il conflitto, coinvolgendo altri attori, a cominciare dai paesi arabi e islamici. Se anche questo non avvenisse, o non in modo significativo per l’andamento dello scontro in atto, un obiettivo residuale potrebbe essere quello di consolidare la sua immagine come unico rappresentante della causa palestinese e di sostenere da questa base politica la divisione del Medio Oriente tra un campo fondamentalista (ferocemente anti israeliano ed anti occidentale) ed un campo moderato, mettendo da parte (almeno in questa fase) la più antica divisione dottrinale tra sunniti e sciiti.
Russia, Iran, Turchia: coalizione anti-Israele
Il mondo intero si sta schierando e sta cominciando a muovere le sue pedine. Oltre ad Israele, agli Stati Uniti e agli altri paesi occidentali che oggi appoggiano Israele, che sono fortemente contrari ad un allargamento del conflitto e che preferirebbero una conclusione rapida delle operazioni militari, altri importanti attori stanno prendendo posizione, con loro obiettivi strategici.
La Russia di Vladimir Putin, vede certamente con favore l’intensificarsi di un conflitto che distrae l’opinione pubblica mondiale dalla sua aggressione militare all’Ucraina. Forse spera anche che questo gli consenta di esercitare una maggiore influenza in Medio Oriente ed in Africa. La sua scelta, dopo qualche esitazione iniziale, sembra dunque quella di appoggiare le tesi di Hamas e di accrescere la sua collaborazione con l’Iran, pur lasciandosi aperta l’opzione di una qualche forma di mediazione, ove ve ne fosse la possibilità.
In Iran, il conflitto sembra aver rafforzato il partito di coloro che sono contrari ad ogni ripresa del dialogo con gli Stati Uniti. In questa fase dunque Teheran punta a dividere ed indebolire il mondo arabo, in particolare quei governi che possono meglio mobilitare le popolazioni islamiche sunnite contro la sua “eresia” sciita, ed a rafforzare il suo ruolo di leader della campagna contro Israele. In tal modo, oltre ad indebolire gli Stati Uniti, l’Iran spera di consolidare un fronte islamico a lui favorevole che lo faccia uscire dalla posizione minoritaria in cui è ancore situato. Così facendo probabilmente viene messa in conto anche la possibilità di una ripresa del conflitto “indiretto” con l’Arabia Saudita, a cominciare dalla guerra civile in Yemen.
Un attore che riserva qualche sorpresa è la Turchia di Recep Erdogan. Anch’essa inizialmente esitante, ora sembra aver decisamente scelto di schierarsi contro Israele, forse nel tentativo di rafforzare le sue posizioni in Siria, ma probabilmente soprattutto per accreditare Erdogan come nuovo leader del movimento dei Fratelli Musulmani, molto forte nel mondo arabo sunnita e da una cui costola è germinata Hamas.
Questi paesi peraltro non sono normalmente alleati tra loro: i loro interessi sono frequentemente divergenti, ma in questa fase sembrano aver trovato ragioni sufficienti per stabilire una sorta di coalizione anti israeliana. Non una vera alleanza, ma il convergere tattico di diverse strategie che poi potrebbero tornare a scontrarsi tra loro. La Turchia pur avendo stabilito linee di comunicazione con la Russia, ed avendo appoggiato la riconquista del Nagorno Karabakh da parte dell’Azerbaijan contro l’Armenia, resta pur sempre membro della NATO e in contrasto con Russia ed Iran in Siria. Lo stesso Iran, nei conflitti in Caucaso, era piuttosto solidale con l’Armenia e la Georgia, in funzione anti turca ed anti russa, anche se è divenuto un importante fornitore di armi per Mosca, contro l’Ucraina e riceve un parziale appoggio russo in campo nucleare.
L’interesse comune sembra essere soprattutto di carattere negativo: ognuno di questi paesi ha proprie ambizioni in Medio Oriente che potrebbero avere maggiori speranze di successo se si indebolisse l’influenza americana ed occidentale nella regione, e vedono in Israele la perfetta occasione per raggiungere tale risultato.
Medio Oriente: Una stabilizzazione (quasi) impossibile
La debolezza dimostrata da gran parte dei governi arabi cosiddetti “moderati” (che più si erano esposti nel processo di normalizzazione dei loro rapporti con Israele) di fronte alle proteste della loro opinione pubblica, è certamente un incentivo ad appoggiare le tesi favorevoli ad Hamas.
Ma è difficile immaginare come una simile coalizione potrebbe assicurare un nuovo stabile equilibrio della regione. L’appoggio concesso a movimenti terroristici e fondamentalisti, che non hanno alcun interesse ad una qualsiasi pacificazione, pesa in modo importante sulla loro credibilità. D’altro canto una simile scelta non potrà avere successo senza una cocente sconfitta e forse anche la eliminazione fisica di Israele: un obiettivo che sembra troppo ambizioso, del tutto squilibrato rispetto alle risorse che questi paesi possono voler mobilitare ed impegnare.
Il risultato di tutto questo però sembra essere un aumento della volatilità politica dell’intera regione, che finirebbe ancora una volta per obbligare gli americani e l’Occidente ad impegnare importanti risorse in un processo di difficilissima stabilizzazione. Chi ne guadagnerà? Forse la Cina.
Foto di copertina EPA/HANNIBAL HANSCHKE