È difficile immaginare oggi nell’orrore della guerra in atto un accordo di lungo termine che contempli la fine del terrorismo di Hamas contro Israele, l’interruzione del contrabbando di armi verso Gaza, una forza multinazionale di interposizione fra le parti, la fine del blocco economico imposto da anni sulla striscia, l’enorme opera di ricostruzione dopo il disastro umanitario arrecato dalla guerra.
Pensare alla ricostruzione
Pensiamo al “giorno dopo”, al come ricomporre, dopo la cruda conta delle vittime, i lutti e le sofferenze di gente segnata per la vita dalla violenza, un minimo di ordine civile e di progresso economico a Gaza e favorire così la strada verso la convivenza pacifica in quella regione. Il compito che ci spetta – in quanto opinione pubblica dell’Europa, del mondo, attenta ai diritti umani, convinta della necessità della pace fra israeliani e palestinesi, dell’esigenza di spartire una terra contesa fra due diritti di pari dignità – non è quello di attribuire colpe, di infliggere punizioni. È quello di offrire ponti, spingere le parti in lotta al dialogo, riprendere la logica degli accordi di Oslo del 1993 quando il riconoscimento reciproco dei diritti aveva dischiuso uno spiraglio concreto di speranza: il conciliare il diritto alla pace e alla sicurezza per Israele con quello a uno stato indipendente per i palestinesi.
La strada è ardua. La violenza genera e perpetua altra violenza in un’orgia di reciproca brutalità. Le sofferenze della propria gente, il trauma immane inflitto dall’eccidio di massa perpetrato da Hamas il 7 ottobre, il senso angoscioso di insicurezza da esso acuito nella psicologia degli israeliani tendono ad ottunderne la sensibilità alle sofferenze degli altri; impediscono in molti la comprensione e compassione per i palestinesi, per i loro diritti negati di popolo. Dei palestinesi si vede soltanto la minaccia terroristica, il nemico ingrato e irriducibile che va domato con la forza delle armi
Un meccanismo analogo agisce fra i palestinesi che demonizzano Israele in quanto aggressore. Così nell’uno e nell’altro campo è la difesa delle proprie esclusive ragioni a dettare legge, fino a disumanizzare il “nemico”.
L’illusione militarista di Hamas di piegare Israele con la violenza è sconfitta. Dalla vittoria elettorale del 2006, Hamas ha alimentato una sciagurata e inutile guerriglia contro Israele interrotta da periodi limitati di tregua. Il ritiro israeliano da Gaza dell’agosto 2005 fu evento di grande importanza; pur con i suoi limiti, poteva essere il preludio a futuri, necessari ritiri di Israele da parti rilevanti della Cisgiordania, il che fu oggetto di serrati negoziati fra le parti nel 2009, ultima trattativa svoltasi fra israeliani e palestinesi.
Il futuro di Israele
Gaza era un embrione di stato palestinese, sebbene necessitasse di un legame fisico e politico con la Cisgiordania, di luoghi di transito aperti, di un confine davvero sovrano con l’Egitto. Certamente quel ritiro, voluto unilateralmente da Ariel Sharon e non negoziato con l’ANP, aveva fornito a Hamas un alibi per esaltarlo come una sconfitta di Israele. Era un ritiro limitato perché non concedeva ai palestinesi il controllo del mare né dello spazio aereo. Ma poteva costituire, nel frattempo, un avvio di progresso civile ed economico per quella terra diseredata.
Così non è stato. Il “rifiuto di Israele” e degli accordi di Oslo resta, nel settarismo ideologico di Hamas, un elemento paralizzante.
Dall’altro lato è vano per Israele affidarsi alla sola repressione militare del terrorismo senza offrire un negoziato che consenta ai palestinesi di cogliere i benefici concreti del ripudio della violenza e della nascita di uno stato sovrano. È legittimo il diritto-dovere di Israele all’autodifesa, la volontà di debellare il sadismo infame di Hamas e di prevenire il ripetersi di eccidi di massa, ma il punto è come esercitare quel diritto osservando le leggi di guerra, limitando i danni inferti ai civili, alle infrastrutture.
Una “scelta tragica” – come una lettera di filosofi israeliani ha affermato – date le condizioni materiali sul campo, la densità di popolazione, la contiguità ampiamente documentata fra l’apparato militare-terroristico di Hamas e i luoghi abitati. Le radici stesse del terrorismo si potranno estirpare solo dall’interno della società palestinese. Lo impongono sia un imperativo etico sia il raziocinio politico. È quindi interesse vitale di Israele fare tutto quanto è in suo potere per dissociarla dall’estremismo integralista di Hamas e della Jihad islamica.
Le conseguenze dell’occupazione e un compromesso possibile
Dal ritiro da Gaza nel 2005 Israele non ha fatto alcun passo, paralizzata da un lato nel suo immobilismo diplomatico dai contrasti interni al paese, spinta dall’altro lato dalla forza di pressione dei coloni ad una dissennata espansione degli insediamenti in Cisgiordania. Non ha liberato prigionieri palestinesi – se non nel recente, limitato scambio con gli ostaggi israeliani rapiti il 7 ottobre – non ha alleviato le condizioni vessatorie e umilianti dell’occupazione, non ha accettato il piano di pace della Lega Araba del 2002 che costituiva una proposta nuova per il mondo arabo. Urge un negoziato con l’ANP sulle questioni dirimenti degli insediamenti, dei confini con uno scambio paritario di territori fra i due stati, dello status di Gerusalemme, capitale condivisa dei due stati.
Nonostante le ambiguità, i diversivi dialettici e la naturale tentazione al procrastinare, dovrebbe essere chiaro che di tre cose – Israele come stato-nazione del popolo ebraico, Israele come democrazia, continua espansione delle colonie fino all’annessione di fatto della Cisgiordania – due sole si possono conseguire in un futuro non lontano.
O Israele rinuncia ai territori, sgomberando le colonie ed eventualmente negoziando uno scambio paritario di territori con il futuro stato di Palestina per quanto riguarda gli insediamenti più densamente popolati e prossimi alla “Linea verde” – Maaleh Adumin e Gush Etzion -, e conserva quindi la sua identità di stato “ebraico e democratico”, di stato, cioè, in cui gli ebrei sono maggioritari ma gli arabi godono della pienezza di diritti politico-civili di una minoranza nazionale.
Oppure, perpetuando l’occupazione dei territori, dà luogo a uno stato binazionale , in cui gli ebrei saranno minoritari in virtù della demografia, sacrificando quindi le fondamenta ideali e pratiche del sionismo. Oppure, infine, annettendo i territori ma privando i palestinesi che vi risiedono di diritti civili e politici, conserva l’ebraicità dello stato, in un senso rozzamente etnico, ma in un regime di segregazione ed esclusione degli abitanti arabi che sarà bandito dalla comunità internazionale e segnato dalla guerra civile.
Il futuro incerto di Gaza
Per quanto riguarda il “giorno dopo” di Gaza le uniche opzioni realisticamente possibili sono l’emergere di una nuova leadership palestinese in loco, antagonista a Hamas e aliena alla sua ideologia jihadista, affiancata dal ritorno in loco dell’Autorità palestinese di Ramallah che ne fu esclusa violentemente nel 2007. Un iter difficile con una ANP delegittimata nell’opinione pubblica, accusata di autocrazia, corruzione e connivenza con Israele occupante. Sicurezza e ordine potrebbero essere assicurati da una coalizione di paesi arabi che hanno concluso accordi di pace con Israele: Egitto, Giordania, Emirati arabi uniti, Arabia saudita, Bahrein e Marocco.
foto di copertina EPA/MOHAMMED SABER